PROGRAMMA
EMILIA-ROMAGNA PER LA PACE, L’AMBIENTE E IL LAVORO: UNA LISTA DI ROTTURA NECESSARIA DOPO IL FALLIMENTO DEL MODELLO SANCITO DAL “PATTO PER IL LAVORO E PER IL CLIMA”
Le elezioni dell’Emilia-Romagna si collocano su nuovo delicato tornante dello scenario politico italiano, in cui tutto il sistema di potere sta continuando la sua opera di distruzione dello stato sociale, dalla scuola alla sanità, per investire il massimo delle risorse in armi, piegandosi alle volontà della NATO nello scenario militare della competizione internazionale. I due poli candidati alla guida della nostra regione si presentano come alternativi, ma già stanno dando le loro garanzie che nulla cambierà.
Da una parte abbiamo il centrosinistra del “campo largo”, guidato da De Pascale, delfino del dimissionario Bonaccini, di cui assicura tutta la continuità politica e amministrativa: le politiche neoliberali, la precarietà lavorativa, il taglio della spesa sociale e lo smantellamento della sanità pubblica, il sostegno all’autonomia differenziata in salsa emiliana da contrapporre a quella del governo, le garanzie per il “partito unico degli affari e del cemento” che ha distrutto la nostra regione, come dimostrato dall’alluvione dell’anno scorso, la fede euroatlantica che porta a installare un’infrastruttura strategica dell’economia di guerra come il Rigassificatore, e che permette il traffico di armi per il genocidio palestinese dal porto di Ravenna.
Dall’altra ci troviamo di nuovo di fronte ad una destra di falsa opposizione, che ancora una volta prova a proporsi come alternativa valida al “sistema PD” candidando la “civica” Ugolini, funzionaria delle politiche sull’istruzione che ha già collaborato con i governi nazionali di tutti i colori, per la stesura della riforma Berlinguer, con la ministra Moratti, per implementare l’aberrazione del sistema Invalsi, fino a ricoprire il ruolo di sottosegretaria nel governo Monti: un messaggio rassicurante verso gli elettori del PD “siamo come voi, veniamo dalla stessa storia”, ma una condanna per le nuove generazioni. Si tratta non casualmente di una dei massimi leader del movimento Comunione e Liberazione, il cui Meeting estivo è diventato ormai l’appuntamento stabile al quale tutta la classe politica nostrana viene a porre gli omaggi per concordare l’agenda concreta del Paese oltre ogni apparente differenza.
In mezzo a questa finta alternativa rimangono schiacciate ancora una volta le classi popolari, le lavoratrici e i lavoratori che vedono i loro salari mangiati dal carovita, dagli affitti e dalla sanità privata, i precari sfruttati nel turismo che intanto spreme le nostre città, gli studenti cui non viene concessa alternativa tra un futuro senza prospettive o con stipendi da fame e una corsa ad ostacoli in una società sempre più competitiva ed escludente, gli abitanti delle periferie e dei comuni privati di lavoro e servizi sociali, in cui cresce l’onda reazionaria sulla mistificante linea divisoria del colore della pelle.
Nella Regione lasciata in mano alle piattaforme della logistica e al cemento, c’è un mondo di persone che ogni giorno combatte per un futuro diverso ma a cui viene tolta la voce: davanti all’imminente chiamata alle urne, queste persone si sono organizzate, per prendere parola insieme.
Per questo, per dare rappresentanza politica agli sfruttati e agli esclusi dall’attuale sistema di potere e connivenze, Potere al Popolo, il Partito della Rifondazione Comunista e il Partito Comunista Italiano hanno presentato alle elezioni regionali la lista “Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro”, con liste provinciali costruite da chi la regione la vive e ne fa la sua ricchezza: studenti, giovani precari, lavoratrici e lavoratori italiani e stranieri, attivisti sociali, ambientalisti, rappresentanti della comunità palestinese, legali da sempre a difesa delle lotte sociali che attraversano la nostra regione.
Proponiamo come candidato presidente Federico Serra, 33 anni, lavoratore delle cooperative sociali. Nella sua professione si è occupato di accoglienza dei migranti, del sostegno alle persone con disabilità, del supporto alle vittime di tratta e dell’emergenza abitativa. Da diversi anni è delegato dell’USB – Unione Sindacale di Base, ruolo che lo ha portato a seguire importanti vertenze che univano i diritti degli utenti a quelli delle lavoratrici e dei lavoratori delle cooperative e al tema della democrazia sindacale, come in occasione della chiusura del centro di accoglienza Mattei a Bologna nel 2019. Da sempre attivo nelle lotte sociali e politiche, è stato in prima fila nei movimenti studenteschi e poi nel movimento di lotta per il diritto all’abitare, grazie al quale centinaia di persone in questa regione hanno strappato il diritto ad avere un tetto sopra la testa. Da sindacalista, ha preso parte anche alle battaglie nei punti caldi dello sfruttamento della forza lavoro lungo la via Emilia, dalla logistica piacentina alle lotte degli stagionali in riviera. Nell’ultimo anno è stato presente nei momenti più importanti della lotta per il parco Don Bosco a Bologna, come nelle mobilitazioni di solidarietà con il popolo palestinese. Nei giorni in cui il Parlamento discute una nuova stretta reazionaria sull’agibilità delle lotte sociali tramite il nuovo DDL Sicurezza, la storia personale di Federico è un esempio concreto di come alla repressione poliziesca e giudiziaria subìta sulla propria pelle si possa rispondere solo collettivamente organizzandosi e tenendo alta la testa.
Nelle settimane di questo inizio autunno, l’ennesima strage nei luoghi di lavoro che affligge la nostra regione, l’ennesima alluvione che devasta il nostro territorio, ci dicono che la realtà mette in crisi le tante chiacchiere della politica sul modello di sviluppo che questa regione ha prodotto in questi anni: il consumo di suolo e la cementificazione nel nome del profitto delle multinazionali della logistica e delle grandi aziende, lo sfruttamento nei luoghi di lavoro, gli incidenti continui e la morte; il lavoro sottopagato e precario nei servizi pubblici e di welfare sempre più privatizzati tramite lo strumento dell’appalto.
Abbiamo bisogno di sicurezza nei luoghi di lavoro e di sicurezza sociale e ambientale.
Dopo aver ottenuto il sostegno di quasi 10 mila cittadini con la loro firma a sostegno della possibilità che la lista fosse presente in tutte le 9 province della nostra regione, ora è il momento di sostenere con il voto l’unica lista con un programma di opposizione e rottura al sistema alle destre e al PD!
EMILIA-ROMAGNA REGIONE DELLA SANITÀ PUBBLICA
Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro persegue un modello di sanità pubblica e universale, adeguatamente finanziata secondo i principali standard europei e che non persegua la strada delle privatizzazioni in tutte le sue forme, a partire dall’accreditamento dell’ospedalità privata. Decenni di riduzione dei finanziamenti dello Stato in materia di Sanità, mai adeguatamente contrastati dalle Regioni e neppure dall’Emilia Romagna, hanno determinato una progressiva riduzione dei servizi fino al punto di mettere in discussione il Diritto alla Salute. Lo testimoniano le lista di attesa per le prestazioni CUP che violando costantemente i tempi di attesa stabiliti dai LEA e impediscono spesso diagnosi precoci a meno di ricorso alla sanità privata.
Finora, il sistema sanitario regionale è stato smantellato tra riconversione e privatizzazione…
Il ridimensionamento imposto a livello normativo non poteva certo risparmiare il numero delle strutture ospedaliere. Già ridotti notevolmente dalle politiche degli anni precedenti, gli ospedali continuano tuttavia a essere troppi per i bilanci sempre più ristretti delle Regioni. Se alcune strutture risultano di difficile disattivazione, probabilmente anche per l’impatto mediatico e sulla popolazione di riferimento che da generazioni si affidava a quegli ospedali, la soluzione è quella di procedere a un ridisegno delle loro funzioni. È questo il caso di quelle strutture “dal service-mix poco complesso e scarsa casistica certamente ospedaliera”, come si legge in un documento regionale sui principi di ridisegno ospedaliero di quegli anni. Questi ospedali andranno quindi riconvertiti, integrandosi in quella che viene chiamata “assistenza territoriale”: “in esse verrà assicurata una costante assistenza INFERMIERISTICA, mentre quella MEDICA sarà affidata ai titolari dell’assistenza medica di base”, ovvero i medici di medicina generale. È la teorizzazione degli “Ospedali di comunità”, un nuovo tipo di struttura sanitaria che rappresenta secondo i piani della regione il destino di 25 dei 61 ospedali presenti sul territorio, a cui va ad aggiungersi la riconversione di tutti quei presidi ospedalieri con meno di 120 posti letto.
L’Ospedale di Comunità, od OS.CO., è un grave esempio di taglio della spesa sanitaria che nasce dall’idea di separare la fase acuta da quella di riabilitazione, con la funzione di dimezzare i tempi della prestazione all’interno dell’ospedale tradizionale che ha standard sanitari e tecnologie più “costose”, e portare la prestazione al di fuori di esso. Gli OS. CO. sono strutture para-ospedaliere in cui, come abbiamo visto, il ruolo dell’infermiere si afferma su quello del medico. Gli OS.CO non vedono infatti la presenza dei medici di reparto bensì dei soli medici di medicina generale, presenti a rotazione oppure chiamati all’occorrenza dal personale infermieristico.
In termini generali, il numero dei posti letto effettivi che andava ridotto in base al mandato della spending review era attorno ai 2.570 posti letto, di cui 1.700 sono stati conteggiati dalla riconversione degli ospedali a minor complessità in Ospedali di Comunità. Di 1.394 posti letto di day hospital medico per acuti, se ne contavano 237 di oncologia e 128 di riabilitazione e radioterapia: risparmiati questi, i restanti 1.029 posti letto possono essere chiusi senza prospettare alcuna riconversione. La riduzione complessiva, alla luce di questi calcoli, ammontava dunque a circa 2.700 letti in tutta la Regione.
Accelerando su chiusure e riconversioni, la conseguenza prevedibile è stata una concentrazione delle prestazioni in pochi centri specializzati. È esattamente quello che è avvenuto con la diagnostica di laboratorio, ora concentrata con base minima di livello provinciale se non addirittura di area vasta, visto che appariva ormai obsoleto prevedere una distribuzione dei laboratori mappata sulla dislocazione degli ospedali. La stessa sorte è toccata ad altre funzioni diagnostiche come ematologia, anatomia patologia e radiologia. Dopo il taglio di quegli anni, di strutture ospedaliere la regione ne conta 32, di cui 13 sono ospedali di base (bacino di utenza: tra 80.000 e 150.000 abitanti, dotati di Pronto Soccorso e un numero di limitato di specialità), 11 ospedali di I livello (bacino di utenza: tra 150.000 e 300.000 abitanti, di livello intermedio) e 8 ospedali di II livello (bacino di utenza: tra 600.000 e 1.200.000 abitanti, di strutture istituzionalmente riferibili alle ASL o Aziende ospedaliero-universitarie).
A livello territoriale si è assistito alla riorganizzazione della medicina di base con la medicina di gruppo, alla fine dell’esperienza dei poliambulatori e all’istituzione dell’altro grande pilastro, insieme agli OS.CO, del sistema sanitario emiliano-romagnolo: le Case della Comunità. Queste strutture sono un presidio dei Nuclei di cure primarie, ovvero un’articolazione territoriale dei Dipartimenti delle Cure Primarie che dipendono direttamente dalle AUSL. Ci viene detto che questo modello dovrebbe favorire la presa in carico dei pazienti, con la motivazione che è proprio grazie a queste strutture che si realizza meglio l’integrazione dei professionisti coinvolti: Medici di medicina generale, Medici di continuità assistenziali, Pediatri di libera scelta, specialisti ambulatoriali, infermieri, ostetriche, assistenti sociali. Il Partito Democratico, non potendo negare tagli, chiusure e riconversioni, ha cercato di rifarsi un volto nei territori proprio grazie al modello della Casa della Comunità, presentata come “sanità che si avvicina alla salute”, come “punti visibili che garantiscono la facilità di accesso ai servizi”. In realtà stiamo parlando dell’ennesimo strumento per garantire un contenimento dei ricoveri ad alto costo per i pazienti cronici e per insinuare ulteriormente il soggetto privato tra le maglie della sanità regionale. Dentro la struttura convivono infatti liberi professionisti, che assumono infermieri e segretari pagati dai medici, insieme a specialisti dipendenti dell’AUSL e a specialisti privati. Inoltre, il medico della Casa della Comunità, pur essendo libero professionista, non opera più come soggetto autonomo nel proprio ambulatorio ma lavora con una serie di regole che di fatto stringono il cerchio e lo obbligano ad una pratica medica di diverso tipo, molto più simile a quella del dirigente amministrativo. Le Case della Comunità sono, nei fatti, strutture miste pubblico privato, sono un sistema integrato votato al risparmio del pubblico e agli affari del privato. È bene ricordare sempre che, in un contesto come quello emiliano-romagnolo, parlare di privato vuol spesso dire riferirsi a quel sistema. Analoga, se non ancora più grave, la insufficienza della presa in carico delle situazioni di emergenza-urgenza grazie alla chiusura di molte sedi di Pronto Soccorso e di PPI cui si sostituirebbe la presa in carico dei CAU, strutture insufficienti, prive di adeguati mezzi diagnostici a cui afferiscono i codici “bianchi e verdi” salvo necessità di trasferimento nel caso d’urgenze misconosciute. Insufficiente è stata negli anni anche la risposta regionale alle situazioni di non autosufficienza; gli interventi domiciliari erogati come ADI (assistenza infermieristica) e SAD (assistenza domiciliare in carico ai Comuni) intervengono per un numero limitato di ore di disponibilità; la distruzione nel tempo della rete specialistica territoriale impedisce accertamenti clinici e strumentali di base al domicilio e la gestione della non autosufficienza grava quasi sempre sulle famiglie, nonostante i proclami di “Sanità della domiciliarità.
In dieci anni di presidenza Bonaccini la risposta alla crisi sanitaria è stata un modello di sanità mista pubblico-privata, con un aumento vertiginoso delle convenzioni e dell’accreditamento del privato che ormai assorbe molta parte delle risorse; il privato assume progressivamente un ruolo sempre più sostitutivo del servizio pubblico. Occorre uscire da questa stagione e rilanciare l’iniziativa regionale in sanità mettendo al centro i bisogni delle persone e i cambiamenti nella domanda di salute, con un’attenzione particolare alle aree periferiche che in questi anni sono state depotenziate rendendo diseguale l’accesso alle cure nella nostra regione.
… Ma d’ora in poi, noi ci impegniamo per il riportare il diritto alla salute al primo posto, per una sanità pubblica e universale
- Vogliamo che la Regione si doti di un Piano Sociale e Sanitario che preveda un incremento degli investimenti, a fronte dell’abolizione dei ticket sanitari, per una vera integrazione sociosanitaria e per le dotazioni tecnologiche e di personale con l’obiettivo di potenziare la prevenzione, riaprire i punti nascita chiusi e sviluppare la rete sanitaria periferica implementando poliambulatori che devono essere aperte in ogni comune e in ogni quartiere delle grandi città. Vogliamo il ritorno ad una vera gestione della emergenza-urgenza con il ritorno al rispetto dei rapporti ottimali dell’emergenza territoriale e dell’attività di continuità assistenziale;
- Vogliamo una nuova stagione di investimento nel personale sanitario, già duramente provato dal blocco del turn-over, e sottoposto a mancate sostituzioni e sovraccarichi di lavoro che rischiano di incidere sulla qualità e la stessa sicurezza delle cure. Investimento che risulta indispensabile per superare il fenomeno dei medici gettonisti, che non garantisce la qualità delle prestazioni e la continuità di cura dei pazienti e, al tempo stesso, drena una quantità enorme di risorse pubbliche;
- Siamo fermamente contrari a tutte le forme di inserimento di personale che stia dentro al campo della salute riproduttiva solo per servire l’agenda ideologica di chi è contro l’autodeterminazione dei corpi, che siano “preti in corsia”, associazionismo antiabortista e quant’altro. Consideriamo inaccettabile la presenza di volontari cattolici al fianco di chi abbia già deciso di abortire e la presenza delle cosiddette “veglie di preghiera” contro l’aborto presso ospedali e consultori. L’Emilia-Romagna si è coccolata per troppo tempo nel mito per cui l’obiezione di coscienza sia un problema solo delle regioni “di destra”. Assistiamo alla creazione di isole di “obiezione” in singole aziende ospedaliere che arrivano a percentuali tali per cui, di fatto, non si garantisce più l’IVG. (ad esempio il policlinico di Modena presenta una percentuale di medici obiettori superiore al 52%). Mentre a livello nazionale vengono garantite quote sostanziali dei finanziamenti PNRR a progetti dichiaratamente anti-scelta e in alcune regioni il finanziamento pubblico ai Centri di Aiuto alla Vita supera il 93% del totale erogato (vedi es. Piemonte), noi pensiamo che sia irrimandabile una presa di posizione regionale garantendo ai consultori i fondi necessari per ritornare ad essere quello per cui sono stati istituiti: informazione e supporto su contraccezione e aborto, con libero accesso per chiunque, soprattutto per chi vive vite particolarmente precarie; auspichiamo una quanto più rapida messa in pratica del protocollo sanitario per aborto farmacologico, con somministrazione della seconda pillola a domicilio in telemedicina, come caldeggia il coordinamento regionale di collettivi e associazioni per i diritti sessuali e riproduttivi;
- I malati cronici non autosufficienti sono sempre più espulsi dall’assistenza pubblica e la cura scaricata sulle famiglie, con il ricorso all’aiuto domestico (spesso non qualificato mal pagato) o a strutture assistenziali miste pubblico-private dai costi insostenibili;
- Vogliamo implementare l’ospedalizzazione domiciliare trasferendo medici e infermieri sul territorio, rendendo più umano e diretto il rapporto del paziente con il servizio sanitario locale. Per fare questo è necessario uscire da un modello di gestione delle problematiche sociosanitarie centrato prevalentemente sul sistema dell’accreditamento, che è divenuto uno strumento politico per avviare la privatizzazione dei servizi e stanziare minori risorse regionali all’assistenza scaricandone le conseguenze sui pazienti e i loro famigliari, sugli operatori dell’assistenza e sui comuni chiamati poi a coprire le carenze economico-gestionali con fondi propri. Ci impegniamo ad avviare un processo di ripubblicizzazione delle ASP, ad aumentare i fondi per la non autosufficienza e a riconoscere il lavoro degli operatori e delle operatrici della assistenza come lavoro usurante.
- La salute mentale è importante! Istituzione dello psicologo di base a livello regionale che operi in collaborazione con i medici di base del territorio.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA DELL’ECONOMIA, DELL’INDUSTRIA E DEI TRASPORTI
Le emissioni di gas climalteranti rappresentano la maggiore minaccia che la salute umana deve affrontare nel XXI secolo. Secondo il rapporto dell’Organizzazione Mondiale Meteorologica delle Nazioni Unite, la concentrazione di CO2-equivalente in atmosfera aumenta di anno in anno. La salute è messa a repentaglio anche da altri fattori critici. Su tutti l’inquinamento atmosferico. In Europa, secondo l’Università di Chicago, due zone si contendono la maglia nera: la Polonia centrale e la Pianura Padana. Qui da noi, le persone lasciano sul piatto un anno e mezzo della loro aspettativa di vita. Chissà perché, di questa drammatica emergenza non parla quasi nessuno. Per noi, invece, è una priorità
Le politiche ambientali, infrastrutturali e di gestione del territorio devono essere orientate a perseguire il primario obiettivo della transizione ecologica. Per questo motivo assumiamo totalmente le quattro proposte di legge di iniziativa popolare regionale promosse da RECA e Legambiente Emilia-Romagna su consumo di suolo, acqua, energia e rifiuti per fermare la crisi climatica e ambientale e avviare in modo netto la transizione energetica. Tali proposte di legge indicano la strada per affrontare la crisi climatica e debbono essere discusse e approvate all’inizio della nuova legislatura regionale.
Le politiche ambientali devono perseguire tre obiettivi:
- arrestare il cambiamento climatico attraverso una programmazione decennale che si ponga l’obiettivo dell’uscita dall’uso delle fonti fossili in campo energetico, arrivando entro quel periodo di tempo a coprire il 100% dei consumi energetici regionali con fonti realmente rinnovabili, escludendo quelle che vengono spesso presentate come tali (ad esempio, i grandi impianti di biometano o biomasse), ma che in realtà non lo sono;
- rendere resilienti i territori e le comunità attraverso politiche di adattamento al cambio di clima;
- avviare la conversione ecologica dell’economia, dell’industria, dell’edilizia e dei trasporti nelle scelte economiche della regione.
Le politiche infrastrutturali devono essere orientate a perseguire due grandi obiettivi:
- la riduzione della mobilità privata attraverso il potenziamento della mobilità alternativa alla gomma e un nuovo “Piano dei Trasporti” che superi la priorità assegnata alla realizzazione di nuove autostrade;
- la decarbonizzazione del nostro sistema produttivo, a partire dallo stop al rigassificatore di Ravenna e del tratto emiliano romagnolo del gasdotto Linea Adriatica, dallo stop all’impianto di stoccaggio della CO2 denominato “Ravenna CCS” e dalla dismissione delle piattaforme estrattive di idrocarburi in Adriatico, avviando la rinaturalizzazione delle aree marine in cui sono collocate con un processo di riconversione aziendale che tuteli l’occupazione.
Le politiche di gestione del territorio devono assumere come priorità la lotta al dissesto idrogeologico e la messa in sicurezza sismica del territorio, che rappresentano un volano economico formidabile e capace di generare occupazione di qualità.
Un nuovo modello di trasporto
Il trasporto privato è fra le cause principali di inquinamento e spostare quote consistenti di merci e viaggiatori sul trasporto pubblico significa migliorare la qualità dell’aria e favorire il benessere e la salute dei cittadini riducendo i costi derivanti dalle conseguenze dell’inquinamento sulla salute umana.
Per fare questo è necessario riaffermare il ruolo del pubblico nella gestione del trasporto locale, perché sia più vicino ai cittadini e alle loro esigenze. Obiettivo non perseguibile con l’attuale Piano Regionale dei Trasporti, che è figlio di una idea di sviluppo che mette al centro le autostrade. Un’idea di sviluppo obsoleta, inadeguata alla sfida ambientale, miope e antieconomica per il nostro export in quanto le politiche degli stati confinanti stanno sempre più privilegiando lo spostamento delle merci su ferro.
Vogliamo modificare il Piano Regionale dei Trasporti stralciando le opere autostradali inutili e impattanti (Passante di Bologna, Ti.Bre, Bretella Campogalliano-Sassuolo, Autostrada Cispadana, Ferrara-mare su tutte, ma anche fermando la realizzazione di nuove corsie autostradali) e rovesciare i rapporti di spesa a favore del trasporto su ferro e del trasporto pubblico locale con l’obiettivo di ridurre il traffico merci su gomma. Questo obiettivo risulta strategico in particolare a Bologna, dove il passante favorisce ancora una volta la mobilità privata e dove tram e People Mover sono una risposta inefficiente alla mobilità interna e verso l’aeroporto.
Nel ‘nostro’ Piano Regionale dei Trasporti la priorità è assegnata al potenziamento dell’asse ferroviario La Spezia-Parma-Verona con l’obiettivo di connettere i porti tirrenici al Brennero, al potenziamento del Sistema Metropolitano Bolognese e del nodo modenese per farlo elevare a rango di Sistema Metropolitano, al potenziamento del trasporto extraurbano regionale su ferro: estendere la linea Sassuolo-Modena fino a Maranello; investire sulla Piacenza-Cremona e sulla Parma-Fornovo facendole diventare parte di un sistema di trasporto veloce urbano; tornare a investire sulle corse della linea Porrettana dopo i pesanti tagli degli anni scorsi; ripristinare la tratta ferroviaria Budrio-Massa-Lombarda per un collegamento diretto Bologna-Ravenna su ferro ormai prossimo alla saturazione del traffico su gomma, bloccando invece il previsto ampliamento dell’A14; potenziare la linea Ravenna-Ferrara-Poggio Rusco per valorizzare a pieno il Porto di Ravenna ma soprattutto per avere il collegamento con l’Europa centrale attraverso il “Corridoio” del Brennero.
Siamo contrari all’ampliamento del “Verdi” di Parma come aeroporto cargo privato con un enorme incremento di opere infrastrutturali finanziate con denaro pubblico.
Un nuovo modello di gestione del territorio
L’Emilia-Romagna, secondo l’ultimo rapporto Ispra, nel 2022 si conferma quarta a livello nazionale per incremento netto di consumo di suolo con 635,44 ettari di suolo perso, in un contesto in cui il valore calcolato per l’anno 2022 è superiore dell’8% alla media delle ultime sei annualità. Approfondendo i dati del rapporto ISPRA si legge anche che l’Emilia-Romagna è in cima alla classifica per il consumo di suolo legato alla logistica nel 2021-2022, che è stato quantificato in 126 ettari. Numeri destinati a crescere ancora, perché sono diversi in Regione i progetti di nuovi maxi-poli logistici destinati a vedere la luce.
Numeri che ci dicono come l’Emilia-Romagna sia ancora legata ad un modello di sviluppo insostenibile e stia andando nella direzione opposta alla transizione ecologica, negando, nei fatti e nelle scelte politiche, il cambiamento climatico in atto che ha nel consumo di suolo e nell’impermeabilizzazione del terreno una delle sue cause principali. L’approvazione di estrazione di metano al largo della costa, la costruzione della linea adriatica del gasdotto SNAM e tutte quelle opere che sono la naturale continuazione di una decennale politica di connivenze tra le giunte di centrosinistra e i colossi economici, come ENI e Marcegaglia, nella gestione tutt’altro che sostenibile di interessi tanto privati quanto minoritari: queste opere ci dicono che il modello di sviluppo emiliano è fatto di agro-industria, allevamenti intensivi, logistica e estrattivismo.
Nel quadro delle politiche di contrasto al cambiamento climatico e di riconversione ecologica dell’edilizia, vogliamo cancellare la legge regionale urbanistica approvata nel dicembre 2017 che esalta il privatismo e il liberismo immobiliare, cancella la pianificazione urbanistica, aumenta, anziché frenarlo, il consumo di territorio. Bisogna bloccare e revisionare tutte le concessioni edilizie in materia di logistica.
Ci impegniamo a proporre una nuova legge regionale urbanistica, partendo dalla proposta di legge di iniziativa popolare relativa al consumo di suolo, che si inserisca nel quadro delle politiche di contrasto al cambiamento climatico e riconversione ecologica dell’edilizia, della logistica e dei trasporti e si ponga l’obiettivo di delineare una nuova idea di città, affermare il valore della rigenerazione urbana, restituire la pianificazione urbanistica agli strumenti della democrazia.
Il nuovo strumento urbanistico deve essere affiancato da un vero e proprio Piano regionale di riassetto idrogeologico e di messa in sicurezza del territorio, che aggiorni le mappe del rischio idraulico e idrogeologico – prevendo la sospensione delle autorizzazioni edilizie concesse in aree colpite da esondazioni – avendo particolare attenzione alle aree fragili, alla montagna e alle aree interne.
Serve un piano di conversione agricola che, di concerto con il piano di manutenzione idrogeologica del territorio, punti ad una transizione economica che superi l’agricoltura industriale e gli allevamenti intensivi, con l’obiettivo di soddisfare i bisogni alimentari in modo sostenibile e giusto. Gli allevamenti intensivi, in particolare, presentano un carico ambientale, sociale e sanitario significativo: massicce emissioni di ammoniaca, inquinamento da nitrati delle falde acquifere, consumo di grandi quanti quantità di risorse idriche, perdita di biodiversità in conseguenza delle monoculture per la produzione di mangimi, ma anche la scomparsa progressiva delle piccole aziende agricole e rischi per la salute per il sempre più preoccupante fenomeno delle zoonosi, oltre che per l’eccessivo consumo di carne.
Il sistema europeo della PAC ha ucciso la biodiversità, ha favorito le multinazionali e il sistema della finanza in un circuito perverso, e ha tagliato le gambe ai piccoli produttori che mantenevano in vita territori come quello dell’Appennino. Ci impegniamo affinché la Regione, alla quale è assegnato il compito di intermediare queste politiche attraverso i Piani di Sviluppo Rurali: ponga fine al sistema delle “zone agricole” che incentivano le monocolture; si interponga nell’assegnazione dei fondi europei garantendo una proporzionalità nell’assegnazione degli stessi e non lasciando mano libera al sistema bancario; apra una revisione del Patto Stato-Regioni (che assimila il Piano di Igiene europeo) al fine di imporre standard igienici sui processi e non sulla strumentazione (vincolo attualmente previsto che contribuisce a tagliare fuori dal mercato i piccoli produttori); faciliti un generale ridimensionamento del ruolo della Grande Distribuzione Organizzata per abbattere lo spreco dei prodotti alimentari; si impegni con le associazioni dei piccoli produttori alla creazione di una banca del seme che agevoli la pluralità delle colture, stabilisca percorsi di politiche tra loro collaterali (agricole, sociali, culturali, …) per contrastare l’abbandono dei terreni e la chiusura delle imprese di montagna; non lasci in capo ai privati la gestione della popolazione faunistica, rimettendo la gestione del territorio in mano all’autorità pubblica dopo anni di dismissione del ruolo della Polizia Provinciale.
Per beni comuni pubblici e partecipati
Crediamo in un’economia circolare indirizzata alla conversione ecologica che attraverso la ricerca e l’innovazione recuperi materiali, produca energia pulita, tuteli l’ambiente e implementi processi produttivi ecosostenibili creando così nuovi posti di lavoro.
Per realizzare questo obiettivo è necessario riassegnare al pubblico un ruolo strategico nelle politiche energetiche e di gestione dei bei comuni abbandonando il ‘modello Hera-Iren’ delle multiutility quotate in borsa e avviando un processo di ripubblicizzazione dei servizi pubblici locali, a partire dall’acqua, come sancito dall’inattuato referendum del 2011. Va in questa direzione la necessità di cancellare la scelta della Regione di prorogare al 2027 la concessione a privati del servizio idrico per tornare ad una gestione interamente pubblica.
Vogliamo cambiare un Piano Regionale di Gestione Rifiuti che prevede l’aumento da qui al 2029 della produzione di rifiuti. il mantenimento degli inceneritori e il ricorso alle discariche. L’obiettivo della progressiva chiusura degli inceneritori è possibile con una politica che sappia coniugare la strategia “rifiuti zero” al principio del “riciclo totale” alla riduzione degli imballaggi alla fonte, riservando risorse ai Comuni per incentivare e generalizzare la raccolta differenziata porta a porta, minimizzare la quantità di rifiuti non riciclati e promuovere e diffondere il sistema di tariffazione puntuale. Le multiutility concentrano nello stesso soggetto il servizio di raccolta e quello di smaltimento dei rifiuti con un evidente conflitto di interesse per soggetti privati che lucrano sull’incenerimento dei rifiuti e sulla quantità di prodotti energetici che riescono a vendere. È nell’interesse dei cittadini e dell’ambiente abbandonare questo modello.
Emilia-Romagna per la pace l’ambiente e il lavoro si impegna a tenere un rapporto di confronto e consultazione permanente con le Associazioni e realtà sociali ambientaliste, che in questi anni hanno rappresentato un patrimonio di conoscenza, competenza e coinvolgimento delle realtà sociali che vogliamo valorizzare.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE PER UN LAVORO STABILE, SICURO E DIGNITOSO CON UN SALARIO MINIMO DI 10 EURO L’ORA
Nell’attuale fase macroeconomica, nonostante un Pil regionale che nel 2023 registra un più 0,7%, molte imprese sono in enormi difficoltà, e ciò si ripercuote chiaramente sui lavoratori di quelle imprese e sull’intero indotto. Servono politiche industriali di filiera, che rafforzino il posizionamento delle imprese e serve dare voce e potere al lavoro per redistribuire questo valore a favore di lavoratrici e lavoratori e non solo del capitale.
Eppure, secondo il Bilancio di mandato 2020-2024 della Regione Emilia-Romagna viviamo “nella migliore delle regioni possibili”. Nella sezione “regione del lavoro, delle imprese, delle opportunità”, oltre all’enfasi su regimi fiscali favorevoli, innovazione per le imprese e pieno utilizzo dei fondi europei, si enfatizzano le performance di settori come il turismo, del food e della motor valley, e dei grandi eventi. Non è un caso se, in questo quadro, le parole “contratti”, “salari”, “stipendi” non compaiono mai.
Occorre una legislazione attiva contro il disinvestimento, con relative penali da applicare, a partire dalla restituzione dei benefici economici e territoriali elargiti alle imprese. La contrattazione e il patto territoriale possono essere la chiave per la salvaguardia della capacità produttiva e dei posti di lavoro, ma solo se le parti sociali si impegnano reciprocamente e sono chiari gli impegni verso il potere amministrativo locale.
In una progettualità politica volta a rinforzare le lavoratrici e i lavoratori, occorre superare la distinzione tra autonomi e subordinati, così come tra garantiti e non garantiti. Nell’ambito dell’iniziativa più generale volta ad una drastica riduzione del lavoro precario, lavoro subordinato e lavoro autonomo, lavoro stabile e lavoro precario devono avere obiettivi comuni, che consentano a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici di accedere alle tutele fondamentali che uno Stato dovrebbe assicurare a tutti i cittadini e a tutte le cittadine indipendentemente dal loro status.
Proponiamo un Patto per il lavoro sicuro, stabile e di qualità, non solo nel settore privato ma anche nel pubblico impiego, che ponga al centro la condizione di vita e lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori. Vogliamo un Patto per il lavoro che persegua i seguenti obiettivi:
- riconoscere in tutte le procedure di appalto della Regione Emilia Romagna la responsabilità solidale dell’Ente in quanto committente, che indichi in tutte le procedure ad evidenza pubblica, quale contratto collettivo da applicare ai lavoratori impiegati nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalto pubblico e/o pubbliche concessioni, il CCNL di settore che garantisca un salario minimo lordo di almeno 10 euro lordi per tutte le gare d’appalto della Regione, delle sue società partecipate e per le attività che si svolgono su concessioni demaniali o comunali o che richiedono l’occupazione di suolo pubblico (laddove non risulti vigente un CCNL con questi requisiti, la Regione deve indicare un CCNL affine, avviando una verifica con le parti sindacali e datoriali al fine di trovare la modalità più adatta al soddisfacimento del requisito);
- in prospettiva, per smantellare il sistema malato di appalti pubblici destinati a false cooperative dietro la forma giuridica delle quali si nascondono spesso aziende grandi e piccole volte allo sfruttamento del lavoro sottopagato, avviare un progressivo programma di reinternalizzazione dei servizi dati in appalto, in considerazione non solo dei miglioramenti salariali che ne deriverebbero ma anche dei minori costi a carico dell’Ente, nonché della riduzione della precarietà lavorativa, degli incidenti e delle morti sul lavoro, statisticamente superiori nei lavori in appalto e subappalto;
- promuovere l’istituzione di un tavolo tecnico di confronto della Regione con l’Ispettorato del Lavoro per la predisposizione di apposito Protocollo d’intesa finalizzato a monitorare e a garantire la effettiva attuazione degli indirizzi operativi in tema di contrasto al lavoro irregolare e di tutela del migliore trattamento normativo ed economico per i lavoratori impiegati nell’esecuzione di lavori, servizi, forniture oggetto di appalto pubblico e/o pubbliche concessioni e/o autorizzazioni comunali e demaniali, prevedendo percorsi di formazione sulla sicurezza del lavoro e attraverso l’attività di monitoraggio sul tavolo Comitato Regionale di coordinamento previsto dal Dlgs 81/08 e s.m., in stretto coordinamento con INAIL;
- annullare il permesso che, sotto pressione delle sigle datoriali, la Regione Emilia-Romagna ha ottenuto da parte del Ministero del lavoro (tramite l’interpretazione di una circolare dell’ITL) di applicare la forma contrattuale dell’apprendistato di primo livello anche ai minorenni che frequentano i licei, per settori diversi da quelli del percorso d’istruzione. Estensione riguardante il settore turistico durante la stagione estiva, mentre si potrebbero accendere contratti a tempo determinato e indeterminato per i maggiori di 16 anni senza ricorrere alla formula dell’apprendistato. Giova ricordare che la forma dell’apprendistato (per la qualifica e il diploma professionale) prevede una retribuzione significativamente decurtata del 50% nel primo e nel secondo anno, 65% nel terzo, fino ad un massimale del 70% nel quarto anno che si applica solo se il contratto supera i 36 mesi, e che prevede un importante sgravo fiscale per le imprese che assumono con questa formula, si potrebbero in ogni caso accendere contratti determinati e indeterminati per i maggiori di 16 anni senza ricorso;
- contrastare la precarietà del lavoro con l’obiettivo di favorire la crescita del lavoro a tempo indeterminato, in particolare nelle fasce giovanili, rimodulando gli incentivi pubblici prevedendo l’erogazione di contributi solo a quelle imprese che sottoscrivono piani industriali che indichino gli obiettivi occupazionali e le tipologie contrattuali non precarie da utilizzare;
- ripristinare la funzionalità dei Centri per l’Impiego e darvi stabilità ed efficacia di intervento per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e la creazione di buona occupazione. Riorientare lavoratrici e lavoratori verso mestieri più adeguati a ogni soggetto, accompagnandoli con la formazione continua anziché con interventi tanto sporadici quanto inefficaci. Istituire la figura del tutor per garantire processi di inserimento stabili al lavoro;
- raggiungere la parità retributiva tra lavoratori e lavoratrici introducendo protocolli organizzativi che favoriscano la conciliazione vita-lavoro;
- avviare un confronto con le parti sociali per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario nel più ampio obiettivo della salvaguardia occupazionale e dell’incremento dei posti di lavoro;
- escludere il licenziamento nelle crisi aziendali e rendere strutturale il ricorso ai contratti di solidarietà, anche attraverso il contributo economico della regione a sostegno del reddito dei lavoratori;
- contrastare le “delocalizzazioni” e le dismissioni industriali adottando idonei strumenti fiscali e vincoli urbanistici che blocchino tentativi di speculazione edilizia;
- favorire la riconversione ecologica dell’industria più inquinante individuando forme di sostegno alle imprese che investono nella transizione energetica ed ecologica e ai lavoratori coinvolti in processi di riconversione produttiva;
- promuovere la nascita di nuove cooperative che siano realmente tali, sia per i giovani che possono attivare nuove esperienze professionali, sia per trasformare le aziende in crisi in cooperative di lavoro che mantengano l’occupazione e le professionalità esistenti;
- individuare forme di tutela per le partite Iva mono-committenti e a basso reddito che, sempre più, nascondono lavoro dipendente senza diritti e garanzie;
- contrastare la piaga del caporalato, presente non solo nella filiera agricola e alimentare ma anche nei settori del turismo, dei servizi e nelle terziarizzazioni dell’industria con protocolli vincolanti di settore e territoriali per promuovere il lavoro di qualità e un sostegno diretto della Regione agli enti preposti al controllo e alla sicurezza sul lavoro. Più si parla di “turismo come nostro petrolio”, più è chiaro che si intende fare soldi estraendo il sudore di chi lavora senza dare niente in cambio;
- prevenire e contrastare i fenomeni di illegittimità, illegalità e infiltrazioni malavitose a partire dal sistema degli appalti attraverso un forte coordinamento fra le istituzioni, a partire dalla DIA fino alle Prefetture. È questo un prerequisito per un efficace contrasto alle mafie sul territorio regionale;
- contrastare l’esternalizzazione del lavoro e mettere al bando le coop spurie, presenti in particolare nei settori della trasformazione alimentare e della logistica per sottopagare i lavoratori, fare concorrenza sleale, evadere il fisco e favorire la criminalità organizzata;
- mettere in discussione a livello regionale la liberalizzazione delle aperture domenicali dei centri commerciali che, oltre a creare ingiustizia nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori coinvolti, contribuisce a impoverire i centri storici.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE DEL DIRITTO ALLA CASA
Nel 2022 (ultimo dato disponibile) solo il 6,5% (1.795) delle 27.460 domande di assegnazione di un alloggio pubblico ha avuto una risposta positiva. Una proporzione che delinea l’insufficienza dell’offerta di alloggi ERP (edilizia residenziale pubblica), rispetto al bisogno della popolazione. Tale insufficienza, in una delle regioni con la media più alta del numero di sfratti in Italia, è alla base di una profonda crisi abitativa, amplificata nell’ultimo periodo dal crescente carovita determinato dalle tensioni internazionali e dall’economia di guerra del governo. Il contesto generale vede una regione dove il lavoro è presente ma fortemente sottopagato, i salari bassi che non vedono crescita si sono dovuti rapportare con l’aumento del costo della vita, e quindi sempre più spesso il solo salario non permette l’accesso ad un mercato della casa dignitoso. L’accesso al mutuo per via dei salari bassi e del lavoro precario diventa sempre più difficile, soprattutto per i giovani. I tassi di interesse in questi anni sono aumentati vertiginosamente rendendo la sostenibilità dell’operazione, per chi è riuscito a metterla in atto, sempre più costosa. Le periferie geografiche della regione, tagliate di servizi (trasporti, sanità, asili scuole e welfare) si spopolano.
Contestualmente da anni si vede un processo di espulsione delle famiglie dai quartieri delle grandi città per via della valorizzazione immobiliare, la speculazione e il fenomeno della turistificazione. A seguito della crisi del 2008 e il successivo boom di sfratti, le famiglie sono state ricollocate dal mercato passando dalle città ai paesi della provincia. Ad ora non vi sono le medesime possibilità. Gli affitti sono aumentati in tutte le latitudini dove vi sono ancora presenti servizi che permettano conciliazione tempi di vita e di lavoro. Contestualmente, soprattutto nelle città è diminuita fortemente l’offerta stesse delle case: trattasi di un processo ad alta intensità nelle città dove il fenomeno del turismo e delle fiere ha funzionato come grimaldello per lo sviluppo del modello degli affitti brevi, sistema più remunerativo e sicuro come redditività per le grandi proprietà immobiliari.
La turistificazione e l’overtourism, nelle città, hanno fatto esplodere la questione abitativa, sempre presente, ma con una dimensione di massa sottraendo al mercato stesso degli affitti lunghi migliaia di appartamenti destinati agli affitti brevi.
Contestualmente, la produzione di offerta pubblica di case non risponde alla domanda. L’edilizia residenziale pubblica assegna centinaia di alloggi rispetto alle migliaia di domande che vengono presentate ogni anno. La logica di competizione nella miseria al ribasso fa si che gli assegnatari di ERP siano famiglie ad altissima fragilità sociale, sanitaria ed economica. Per cui la fascia del mondo del lavoro viene pesantemente esclusa e ridimensiona nell’accesso. favorendo cosi i processi di degrado e marginalizzazione dell’ERP stesso.
Negli anni si è privilegiata l’edilizia residenziale sociale. Un mix tra pubblico e privato che restituisce comunque alloggi ad affitti sotto la soglia del mercato, ma comunque inaccessibili, permettendo una narrazione sociale dentro una dimensione di speculazione edilizia. Si vedano i progetti nelle aree demaniali o ex caserme dove tramite il privato le amministrazioni rivendicano future costruzioni di Housing sociale senza menzionare l’edilizia residenziale pubblica. L’Housing sociale è uno strumento politico con cui le amministrazioni si sottraggono alla necessità reale di fornire sul mercato alloggio di edilizia residenziale pubblica. Il canone calmierato tramite la leva fiscale dei comuni non ha prodotto un’incidenza dei contratti per cui il risparmio di tasse per i proprietari di casa non è così appetibile rispetto ai forti guadagni da affitti brevi sul mercato oppure ad affitti a lungo termine a prezzi di mercato.
Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro si impegna per:
- Riattivare il piano decennale regionale di finanziamento di edilizia pubblica di 1 Mld (nuova Gescal regionale). Nuova Gescal vuole dire creare una tassazione regionale di scopo volta alle imprese e ai lavoratori nella percentuale dello 0,70 e 0,35 delle retribuzioni mensili (come era la tassa nazionale Gescal), ma anche implementando una vera tassa di soggiorno sul turismo, progressiva e senza massimali: fondi ad uso esclusivo del pubblico per rendere agibile lo sfitto pubblico incrementando l’offerta di alloggi;
- Approvare un piano straordinario regionale decennale per la realizzazione degli alloggi, utilizzando e recuperando il patrimonio sfitto, senza nuovo consumo di suolo;
- Tassare e requisire immediatamente il patrimonio sfitto per via della situazione emergenziale creatasi di mancanza di offerta di alloggi. Riutilizzo delle aree demaniali ai fini dell’edilizia residenziale pubblica e con servizi per il quartiere in base ai bisogni di chi li vive e non di chi finanzia le riqualificazioni;
- Fermare l’accaparramento di appartamenti gestiti dalle piattaforme di affitti brevi. Fare come a Barcellona: bloccare AIRBNB. La Regione si impegni in tutte le sedi istituzionali per bloccare le nuove licenze di Airbnb e per non rinnovare quelle esistenti in tutte le città;
- Fermare la turistificazione selvaggia delle città. Dare impulso a ostelli pubblici o strutture ricettive che rispondano alla domanda di affitti brevi per i turisti. Il turismo ora produce ricchezza per pochi e disagi per la maggior parte della popolazione in termini di mancanza di alloggio e invivibilità delle città che producono solo servizi di consumo ai turisti e non servizi necessari per i cittadini;
- Fermare gli sfratti per chi ha i requisiti per l’E.R.P. se una famiglia è in lista di attesa ACER non può essere sfrattata, ma va accompagnata nel passaggio da casa a casa evitando lo sfratto e i costi che produce. A seguito degli sfratti, i comuni spendono milioni di euro ogni anno per pagare, in emergenza, i pernottamenti delle famiglie in hotel dislocati sul territorio. Prevenire gli sfratti e superare l’emergenza permetterebbe di risparmiare questi soldi da investire sull’edilizia pubblica. Nel caso di impossibilità a impedire sfratti o bloccarli le famiglie non vanno inserite negli hotel o in strutture delle cooperative, ma in appartamenti per l’emergenza abitativa gestiti dal pubblico. Diciamo basta al modello appalti e bandi alle cooperative che traggono profitto dalla gestione dell’emergenza abitativa o all’utilizzo di hotel per collocare famiglie;
- Avviare un tavolo regionale per l’analisi degli effetti della Legge 431/98 sui canoni privati e proporre al governo la sua modifica per fermare l’aumento insostenibile dei canoni. Tavolo che deve coinvolgere tutte le realtà che si occupano dell’abitare allargando la platea;
- Prevedere un intervento abitativo diretto ai giovani e sviluppare gli studentati pubblici in difesa del diritto allo studio; contestualmente limitare lo sviluppo in aree pubblica di studentati privati gesti da multinazionali;
- Introdurre l’indicizzazione del canone d’affitto al reddito del nucleo inquilino. Gli affitti o i mutui ora coprono più della metà dello stipendio;
- Rinnovare la gestione del patrimonio ERP uscendo dalla finalità aziendalistica dell’ACER, riportandola alla sua funzione originale ovvero ente gestore e di programmazione di tutto il patrimonio E.R.P., escludendo per il Comune ogni forma di amministrazione privata;
- ACER deve essere commissariata con un piano volto allo sfitto zero. Va modificato il regolamento di accesso all’ACER ad oggi figlio di un sistema di punteggi che producono modalità di accesso che escludo le famiglie di lavoratori. Bisogna assegnare i punteggi in via proporzionale in base al reddito, ad ora per via delle metodologie di punteggio in graduatoria accade sostanzialmente che si colloca sopra i 6.000 euro di ISEE è nella sostanza impossibilitato ad ottenere una casa ACER;
- Rigettare ogni tentativo di aumento dei canoni di locazione nelle case popolari e adeguamento degli oneri accessori per i servizi realmente ed oggettivamente erogati; moratoria e controllo del sistema di appalti e subappalti delle manutenzioni con cui ACER gestisce gli immobili. Hanno aumentato i costi generali e prodotto un servizio peggiore;
- Mettere fine ai progetti di Housing sociale dove il partenariato pubblico e privato costruisce alloggio a canoni maggiori rispetto all’edilizia residenziale pubblica. Ogni fondo pubblico va investito esclusivamente nell’ERP;
- Promuovere l’abolizione dell’art. 5 del decreto-Lupi varato dal governo Renzi. Questa norma ha escluso dall’anagrafe le persone costrette ad accettare affitti in nero e chi ha occupato abitazioni per necessità, impedendo a migliaia di famiglie di poter veder riconosciuti i propri diritti fondamentali. Infatti, in Italia il diritto di voto e l’accesso a misure di welfare essenziali – tra cui l’iscrizione al servizio sanitario nazionale e la conseguente assegnazione di un medico di base, la piena partecipazione al sistema di istruzione e l’iscrizione ai centri per l’impiego – così come la fruizione di servizi pubblici come l’allaccio alle utenze di acqua, luce e gas, nonché l’ingresso nella graduatoria per ottenere un alloggio popolare, sono legati all’iscrizione anagrafica. Ma non solo, alle persone non italiane l’articolo 5 ha impedito di maturare i requisiti per ottenere la cittadinanza e, per effetto delle prassi illegittime sviluppate da molte Questure, ha ostacolato il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. L’articolo 5 rappresenta una grave violazione dei diritti fondamentale. Questa norma ha peggiorato radicalmente la qualità della vita di moltissime persone e ha contribuito ad aumentare la loro marginalizzazione sociale;
- Impedire la monetizzazione di qualsiasi onere di costruzione legato al verde pubblico e alla speculazione edilizia.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE DELLA SCUOLA E DELL’UNIVERSITÁ PUBBLICHE, DEL DIRITTO ALLO STUDIO E ALLA CULTURA COME BENE COMUNE: FUORI CONFINDUSTRIA DALLA FORMAZIONE
Per la scuola pubblica e il diritto allo studio
Contro la deriva liberista che investe anche l’istituzione scolastica riaffermiamo la funzione educativa della scuola statale laica e pluralista per tutte e tutti come strumento di eguaglianza, solidarietà ed emancipazione. La scuola deve essere un luogo capace di fornire a studenti e studentesse l’alfabeto critico necessario a diventare cittadini consapevoli, e non di mero inserimento nel mondo del lavoro, magari a basso costo. L’Emilia-Romagna rimane uno dei contesti in cui l’aziendalizzazione dell’istruzione pubblica registra le sue punte più avanzate, viste le caratteristiche della regione e la richiesta di manodopera da parte delle aziende. Sia le ultime riforme della scuola, dalla Legge 107/2015 fino alla Bianchi-Valditara del 2024, sia il progetto di Autonomia differenziata emiliano-romagnolo, in materia di scuola e formazione hanno lo stesso obiettivo: spalancare le porte alle aziende, e non solo in termini di “manodopera” (PCTO), ma nel plasmare l’istruzione statale in base alle esigenze aziendali. Dal 2011 esiste già un livello di istruzione/formazione fortemente collegato al mondo aziendale, cioè l’Istruzione e formazione professionale (IeFP). Si tratta di percorsi triennali o quadriennali post-scuole medie, progettati, gestiti e realizzati dalla Regione insieme alle aziende accreditate, al termine dei quali si ottiene una qualifica professionale (es. operatore meccanico) o un diploma professionale (es. tecnico edile). Gran parte di chi insegna negli IeFP lavora per le aziende, la maggior parte delle ore di formazione è in azienda e le “parti datoriali” hanno voce in capitolo negli organismi di gestione e programmazione dell’offerta, cioè, hanno una leva diretta per spingere sulle figure professionali che servono a loro. Va anche detto che coloro che accedono all’IeFP sono i giovani provenienti dai settori sociali più deboli, che finiscono a stento le scuole medie e non riescono nemmeno a conseguire un diploma in un Istituto professionale. Ora la Riforma Valditara degli Istituti tecnici e professionali rappresenta un salto di qualità: la sperimentazione quadriennale per gli istituti tecnici e professionali, l’aumento delle ore dei PCTO, il legame con la formazione superiore terziaria degli ITS Academy (cioè le “mini-università” di Confindustria), di fatto affiancano sempre di più l’istruzione al mondo del lavoro precario. La scuola pubblica italiana viene subordinata alle necessità del mercato nazionale ed europeo con una riforma che attacca la funzione emancipatrice dell’istruzione e cristallizza le differenze di classe presente. In tutto questo le Regioni giocano un ruolo importante, sia perché già gestiscono gli IeFP, sia perché, in base alla riforma Bianchi-Valditara possono stipulare accordi con soggetti pubblici come le Università, e con soggetti privati, come gli ITS Academy, per formare dei “campus” che raccolgono tutti i pezzi della “filiera”. Non si tratta più solo dei PCTO: questa riforma di fatto serve a intrecciare pubblico e privato sia nell’organizzazione interna, sia nell’importanza del ruolo delle aziende in termini di definizione dell’istruzione tecnica e professionale stessa: il modello non è più quello della scuola tecnica e professionale che deve proiettarsi all’esterno per garantire l’occupabilità adattandosi alle richieste delle aziende del territorio. Ora le aziende del territorio decidono dall’interno quale istruzione tecnica e professionale erogare in base alle proprie esigenze. La Regione Emilia-Romagna deve porre tutti i freni disponibili in suo potere nell’attuazione di questa nuova normativa: il legame tra istruzione/formazione e lavoro è già in via di regionalizzazione e sui binari decisi da Confindustria.
- Vogliamo una scuola che preveda tempi distesi di apprendimento, che consideri i nidi per l’infanzia un servizio rivolto alla collettività, che inserisca la scuola dell’infanzia nella scuola di base con l’ultimo anno obbligatorio, il tempo pieno, l’obbligo scolastico dai 5 ai 18 anni, un biennio superiore unitario e un triennio di indirizzo e che sposti la formazione professionale dopo i 18 anni, secondo gli indirizzi della proposta di Legge di Iniziativa Popolare “Per una buona scuola della Repubblica”, sottoscritta nel 2006 da oltre 100.000 cittadini e cittadine, aggiornata nel 2014 e ripresentata sia alla Camera che al Senato;
- Affermiamo il carattere nazionale del sistema scolastico respingendo la tentazione regionalistica e localista che si è sviluppata in questi anni e contenuta anche nella proposta di autonomia regionale avanzata dalla Regione Emilia-Romagna al governo. Questa deriva asseconda l’autonomia scolastica stabilita a livello ministeriale, la quale va contrastata perché ha comportato competizione fra scuole nonché la loro aziendalizzazione, favorendo la degradazione dell’istruzione e l’aumento delle diseguaglianze fra istituti. Ha favorito gli accordi fra scuole ed aziende private e aumentato il divario fra territori e studenti della regione. Ci opponiamo all’organizzazione modello azienda che l’autonomia scolastica impone alle scuole, con a capo i ‘presidi manager’;
- Diciamo no ai finanziamenti regionali per la scuola privata e proponiamo che le decine di milioni di euro oggi destinati alle scuole paritarie vengano destinati alla scuola pubblica. Ogni anno la Regione finanzia con soldi pubblici le scuole confessionali private (paritarie). Eppure, l’articolo 33 della Costituzione precisa che l’istruzione privata debba essere “senza oneri per lo stato”;
- Fermare l’alternanza scuola-lavoro: basta con il modello di scuola-azienda, che serve a fornire manodopera gratuita alle aziende stesse e a preparare le ragazze e i ragazzi ad un futuro di sfruttamento e precarietà, senza contare i tragici incidenti sul luogo di lavoro che hanno causato feriti anche nella nostra regione;
- Servono fondi all’edilizia scolastica: come confermato drammaticamente durante le alluvioni degli ultimi 16 mesi, le nostre scuole versano in condizioni di degrado in cui la struttura edile è vecchia e fatiscente, con rischio di infortuni alto, oltre ai problemi quotidiani, dai bagni ai termosifoni. Tutto ciò rappresenta il riflesso delle politiche sulla scuola fatte dal governo. Ciò che vogliamo sono fondi per l’edilizia scolastica, invece che per gli armamenti. Vogliamo che il numero di studenti per classe sia ridotto e perciò più investimenti nella creazione di nuove scuole e aule. Le classi sono sovraffollate e questo non permette a di avere una didattica adatta e dignitosa, col risultato di lasciare indietro chi non riesce “a stare al passo”;
- Vogliamo materiale scolastico gratuito per tutte le studentesse e tutti gli studenti, i libri di scuola obbligatori arrivano a costare anche 500 euro;
- Proponiamo l’istituzione delle Carriere alias in ogni istituto, e che l’iter sia slegato dall’approvazione familiare per i minorenni, dalle infinite trafile burocratiche e dagli odiosi test psichiatrici;
- Bisogna introdurre l’educazione alla sessualità e all’affettività in ogni scuola, creando ponti con la rete dei consultori territoriali, così come è necessario l’aumento degli sportelli psicologici nelle scuole, disponibili per tutti gli studenti che ne hanno necessità;
- Vanno garantite le assenze giustificate per tutte le studentesse che soffrono di patologie legate al ciclo mestruale, in ogni scuola d’Italia. Parliamo di patologie invisibilizzate da uno Stato succube delle ingerenze cattoliche e dei privati;
- Va garantito il diritto al completamento degli studi per tutte le studentesse madri e una vita dignitosa: è inaccettabile che lo stato non garantisca nessuno sostegno alle studentesse madri, la Regione si deve impegnare a farsene carico.
Per un’Università alla portata di tutti, di qualità e fuori dalla spirale bellica
In una regione che presenta 4 prestigiosi atenei statali, in cui lo scorso anno accademico erano iscritti a un corso universitario oltre 160 mila studenti, in cui ogni anno si laureano decine di migliaia di giovani, è fondamentale curare la formazione come bene primario su cui investire collettivamente, tanto più che il diritto allo studio è in capo proprio alla Regione.
- Il diritto allo studio universitario va reso effettivamente esigibile, per questo proponiamo l’introduzione del “reddito di formazione” in sostituzione dell’attuale sistema di borse di studio per permettere a tutti gli/le studenti di sostenere il costo dei corsi universitari; vogliamo dotare ogni sede universitaria di una mensa gratuita al servizio di studenti e studentesse; vogliamo riduzioni per studenti e studentesse del costo degli abbonamenti per le linee dei trasporti pubblici e prevedere sull’intero territorio regionale facilitazioni per l’accesso e l’uso di servizi culturali e sportivi sull’intero territorio regionale.
- I diritti degli studenti e delle studentesse universitari sono minati dalla vergognosa insufficienza della residenzialità pubblica e della condizione abitativa, che in rapporto ad una crisi generalizzata e ad un carovita sempre più dilagante sono una oggi una pesante barriera d’accesso allo studio universitario. Si può rispondere a questa emergenza solo con un piano di residenza abitativa pubblica, non limitato alla componente universitaria e capace di garantire diritti estesi alla cittadinanza tutta senza creare esclusione delle fasce popolari.
- Respingiamo una politica che asservisce l’Università alle esigenze dei privati e dei gruppi industriali, e che porta a un impoverimento del patrimonio di conoscenze e, in generale, di quello culturale delle nostre Università.
- Accordi Universitari: fine di ogni collaborazione fra le Università della Regione, in particolare dell’Università di Bologna in ognuna delle sue sedi, e l’entità Israeliana, la NATO e qualsiasi ente privato o pubblico riconducibile alla produzione di materiale impiegabile in contesti di guerra; stop ad ogni forma di accordo con le aziende inquinanti
- Università e lavoro: No ai test d’ingresso, soprattutto nelle facoltà di medicina; sostituzione dei tirocini, dove possibile, con altre attività a carattere formativo; in caso contrario, retribuzione di tutti i tirocini curriculari da svolgersi solo in strutture pubbliche.
- Welfare: un generale investimento maggiore nei sistemi di welfare dell’università, per fornire una serie di servizi di base a tutta la comunità studentesca, a partire dall’assistenza sanitaria e/o psicologica. Investimento straordinario per un sistema pubblico di supporto psicologico dentro e fuori le università;
- Percorsi abilitanti da 60 CFU: estromissione di qualsiasi università telematica e/o privata dall’erogazione dei corsi; internalizzazione dei corsi di abilitazione e loro completa gratuità; misure di supporto per gli iscritti in caso siano necessari spostamenti fra la regione; abolizione del numero programmato per l’accesso ai corsi abilitanti;
- Spazi per giovani e studenti: Un’aula o una zona a disposizione della comunità studentesca in ogni sede universitaria, che sia luogo libero di elaborazione critica, accessibile a tutte e a tutti; un più ampio investimento in luoghi appositi, soprattutto nei centri dislocati delle diverse università, per la formazione di aree di socialità per i giovani e gli studenti, che sia fruibili gratuitamente e facilmente accessibili da tutte e tutti;
- Mai più forze dell’ordine dentro l’università
- No alla criminalizzazione dei giovani: in ogni città della regione vanno trovati spazi, appositamente adibiti, da dare alla popolazione giovanile per farne luoghi di socialità consapevole e ritrovo politico, sociale e culturale.
Per la cultura come bene comune
La cultura per noi è un bene comune, che per accrescere la conoscenza e l’inclusione sociale deve essere aperta e plurale e non chiusa nei luoghi elitari.
- Le istituzioni pubbliche devono lavorare in modo coordinato per creare una rete in grado di gestire al meglio i beni culturali, garantendo tutele e diritti al personale, creando un circolo virtuoso che migliori contemporaneamente costi di gestione, qualità e quantità dei servizi.
- Le risorse della Regione vanno orientate verso un capillare sostegno alle istituzioni culturali diffuse sul territorio stanziando fondi che garantiscano loro la possibilità di continuare a sviluppare proposte culturali.
- Gli spazi culturali, in particolare quelli attivi nei territori periferici, vanno sostenuti anche come presìdi di inclusione sociale e baluardi contro l’impoverimento sociale ed economico delle comunità in cui agire politiche rivolte alle fasce deboli della popolazione – anziani, disoccupati, diversamente abili, immigrati.
- I luoghi della cultura possono anche essere il terreno in cui sperimentare forme di alfabetizzazione digitale della popolazione e in cui si favoriscono nuove professioni legate alla comunicazione, al web e all’informatica.
- Valorizzare l’incontro tra i professionisti della cultura e delle arti, il mondo universitario e le peculiarità territoriali attraverso il coordinamento della regione con l’obiettivo di favorire la diffusione delle iniziative culturali.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE LAICA E CONTRO OGNI DISCRIMINAZIONE
- Promuoviamo la piena laicità dello Stato contro ogni fondamentalismo, per consentire alle diverse concezioni religiose di esprimersi – nei luoghi idonei – in una società pluralistica garantendo l’esercizio dei diritti individuali e inderogabili delle persone, perché è da questi che discende il diritto di ogni individuo a decidere della propria vita in ogni suo aspetto ed in ogni fase, fino alla fine.
- La regione finanzia con denaro pubblico le scuole confessionali private (paritarie). Ci opponiamo a tale finanziamento e vogliamo applicare l’art. 33 della Costituzione, che prevede che le scuole private siano “senza oneri per lo Stato” e quindi senza finanziamenti pubblici.
- Libertà significa riconoscere che ci sono più modelli di famiglia, che vanno regolate nel pieno rispetto di ogni scelta e di ogni orientamento sessuale, e tutte devono avere gli stessi diritti. La Regione deve contribuire a equiparare i diritti delle coppie di fatto, di omosessuali e delle famiglie arcobaleno a quelli delle coppie eterosessuali, senza alcuna discriminazione.
- Libertà significa poter esprimere se stessə in luogo pubblico, senza timore di essere vittima di bullismo, minaccia, ritorsione, nell’esercizio completo della personale autodeterminazione: la Regione deve favorire e facilitare nei comuni l’istituzione di registri dedicati alle persone transgender la cui corretta identità di genere non è ancora riconosciuta dallo Stato: persone che hanno quindi indicato sui propri documenti il genere biologico di nascita. Lo scopo del registro è riportare il nome che hanno scelto (e non quello registrato all’anagrafe) sui documenti di competenza del Comune, come la tessera della biblioteca e l’abbonamento per il trasporto pubblico. In sostanza, permetterà alle persone transgender per cui lo Stato non riconosce ancora il percorso di affermazione di avere “un’identità alias” almeno per il Comune.
- Libertà significa che ogni individuo ha pieno diritto ad autodeterminarsi in merito alla propria sessualità, genitorialità e salute riproduttiva. La libertà della donna esige Esigiamo la piena applicazione dell’art.32 della Costituzione, che tutela la salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, e condanna l’imposizione di trattamenti sanitari che non siano previsti dalla legge, come tutte le pratiche riproduttive abusive e obiettrici che ancora, troppo spesso, si verificano nei luoghi di cura pubblici quando si tratta di interruzione volontaria di gravidanza. Dobbiamo escludere il fenomeno dell’obiezione di coscienza dai luoghi di cura pubblici impedendo la presenza di medici obiettori e del movimento anti-scelta nei consultori e negli ospedali. Vogliamo un sistema sanitario regionale che intervenga con fermezza per contrastare il fenomeno delle cosiddette preghiere antiabortiste davanti agli ospedali.
- Aderiamo alla campagna europea “My Voice My Choice”, “La Mia Voce, La Mia Scelta” per il diritto ad un aborto libero e sicuro e ad una piena assistenza sanitaria riproduttiva in tutta Europa.
- Libertà significa investire sull’educazione all’affettività e alla sessualità nelle scuole di ogni ordine e grado per agire contro le radici della violenza di genere e contrastare ogni tipo di sopraffazione basata su stereotipi sessisti e patriarcali.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE DI PACE: ANTIFASCISTA, ANTIRAZZISTA, ACCOGLIENTE
Ci riconosciamo nei valori della Costituzione nata dalla Resistenza e nei valori dell’antifascismo e dell’antirazzismo, e guardiamo ad una Regione inclusiva, in grado di accogliere e dialogare con le nuove soggettività, di popoli e di culture, operando per una cultura della accoglienza in grado di includere nuovi cittadine e cittadini nel lavoro e nelle pratiche della cittadinanza attiva
- Mettiamo al centro l’identità e la storia antifascista della Regione, pensiamo che le organizzazioni neofasciste e neonaziste debbano essere sciolte e vogliamo che in Emilia-Romagna non ci sia più tolleranza nei confronti di chi usa le regole della democrazia per propagandare idee violente.
- Pensiamo che l’immigrazione sia un fenomeno strutturale e che debba essere gestito con percorsi di ingresso legali e sicuri. Pertanto, vogliamo una regione capace di programmare un sistema di accoglienza che superi quello nazionale, ancora basato su una legislazione criminale, con politiche concrete di inclusione che favoriscano l’inserimento sociale e lavorativo. Ci opponiamo ad ogni ipotesi di nuova apertura o riapertura in Emilia-Romagna di centri di permanenza per migranti.
- Vogliamo una regione impegnata nella promozione di politiche di pace e dialogo fra i popoli e che non metta a disposizione porti e aeroporti per inviare armi nei territori in guerra
- Vogliamo una regione che sostenga politiche di educazione alla cittadinanza attiva, all’inclusione sociale e all’integrazione nelle scuole.
Per una regione de-militarizzata e senza servitù militari
La presenza bellica sul nostro territorio ha una storia lunga e profondamente legata alle politiche belliciste di internità alla NATO del nostro paese. Basti ricordare la base di Poggio Renatico, tra le più importanti nel Nord Italia e sede del Comando Operazioni Aerospaziali, e la base dell’aeronautica militare a Pisignano nel comune di Cervia, altro centro importante per l’Alleanza Atlantica e con un ruolo operativo rilevante nelle operazioni del 1999 in Ex Jugoslavia. Come lista impegnata nelle prossime elezioni regionali, lotteremo per eliminare le servitù militari dal nostro territorio.
Per la conversione dell’industria di guerra in attività produttive per il bene della collettività
Recentemente, inoltre, la struttura economica, tecnologica e scientifica della regione sta subendo una torsione alla riconversione verso l’economia di guerra che il governo nazionale ha imposto dal 2020. Sono molte le imprese che lucrano sulla nuova economia di guerra, tra cui le cosiddette “eccellenze regionali”: tra queste, Curti-Costruzioni meccaniche Spa, che riceve milioni di commesse dal Ministero della Difesa ed è stata premiata nel 2021 con il “Leonardo Suppliers Awards”. Ma la connivenza tra industria regionale e guerra è strutturale al sistema imprenditoriale regionale: non è un caso se il presidente di ASTIM Srl, azienda elettronica nel settore bellico, che poco dopo il 10 ottobre ripeteva in azienda “finchè c’è guerra c’è speranza”, sia presidente del Comitato Piccola Industria di Confindustria in Emilia-Romagna. La regione deve svolgere un’azione trasparenza di monitoraggio sulle imprese coinvolte nella filiera del complesso militare-industriale e lavorare con le sue agenzie per l’innovazione per la riconversione dell’industria di guerra in attività produttive al servizio della collettività.
Uno snodo centrale per la logistica di guerra, poi, è rappresentato dal porto di Ravenna. Qui vige una totale opacità rispetto ai trasferimenti di armamenti, eppure è stato documentato il transito della ZIM, nave israeliana di trasporto di materiale bellico. Insieme a studenti e lavoratori del porto, nell’ultimo anno abbiamo denunciato la complicità del nostro paese con l’invasione criminale di Israele in Palestina, e siamo pronti a continuare anche dalle stanze di Viale Aldo Moro la campagna di boicottaggio del trasporto di armi negli snodi logistici della regione, a partire dal porto di Ravenna.
Per lo sganciamento della ricerca dalle imprese belliche
Le mobilitazioni contro il genocidio in Palestina e in solidarietà alla lotta del popolo palestinese dell’ultimo anno hanno fatto emergere, da un lato, la presenza e la rilevanza dell’industria bellica nella regione e, dall’altro i legami profondi tra l’apparato militare-industriale regionale con l’industria bellica israeliana – in connessione con le università della regione.
La richiesta di de-connessione promossa da un ampio movimento che ha fatto proprie le parole del boicottaggio contro Israele e della cancellazione degli accordi per lo sviluppo di tecnologie dall’uso sia civile che militare (dual use) ha evidenziato come l’università non solo sia sempre più al servizio degli interessi privati, ma di come questa connivenza vada sempre maggiormente a nutrire i profitti di realtà economiche parte dell’apparato militare-industriale non solo italiane, ma anche complici delle azioni terroriste dello Stato di Israele.
Allo stesso tempo la promozione del boicottaggio accademico nei confronti di quegli istituti universitari e di ricerca israeliani direttamente implicati nella colonizzazione della West Bank e nel genocidio a Gaza hanno messo in evidenza la cooperazione strategica di Italia ed Israele nella fascia alta degli studi universitari e della ricerca. Nei mesi scorsi, le azioni di studenti e lavoratori dell’università, anche in atenei centrali della nostra regione come l’Alma Mater Studiorium di Bologna e l’Università degli Studi di Parma, hanno sollevato il tema della connivenza tra sistema dell’innovazione e della ricerca regionale con l’industria bellica e con Israele, ottenendo anche primi importanti risultati negli organi accademici. La nostra lotta per lo sganciamento del sistema universitario dall’industria bellica deve continuare nella pressione alle istituzioni universitarie e l’affiancamento alle lotte di studenti e lavoratori dell’università, per la dismissione degli accordi dual use in essere. Lottiamo anche perché la Regione, attraverso le sue agenzie di innovazione e i rapporti strutturati con le università regionali, stabilisca dei protocolli di comportamento delle istituzioni universitarie per bandire gli accordi scientifici relativi all’industria bellica.
Per il boicottaggio politico ed economico nei confronti di Israele, instaurare un reale sistema regionale di partecipazioni e appalti etici
L’economia di guerra e la complicità del comparto militare-industriale con lo Stato di Israele si finanziano anche attraverso la spesa pubblica. Lo scorso febbraio, nel pieno della campagna di boicottaggio contro Israele, IREN Spa – la multiutility che nella nostra regione opera nelle province di Piacenza, Parma e Reggio Emilia – non ha rinnovato gli accordi commerciali con l’israeliana Mekorot: ora bisogna che da ogni appalto regionale e da ogni partecipazione regionale vengano escluse le società coinvolte in violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Attualmente, società coinvolte in lavori importanti per l’ordine di spesa nella nostra regione – finanzianti attraverso il PNRR – sono legate ad imprese belliche. In particolare, nei lavori di realizzazione delle linee del tram a Bologna sta operando un’azienda che collabora con Israele e che è inserita anche in una blacklist delle Nazioni Unite. Si tratta di Alstom SA, assegnataria della gara all’interno di un consorzio che include la cooperativa Cmb Srl (capogruppo) e Pavimental Spa. L’azienda è inclusa in quanto società madre di Bombardier Transportation Israel Ltd., coinvolta in attività economica nelle colonie israeliane e nei territori occupati, e tramite questa fornisce servizi e utenze a sostegno del mantenimento e dell’esistenza di insediamenti, compresi i trasporti, e utilizza le risorse naturali di questi territori, in particolare acqua e terra, a fini commerciali. La politica nostrana utilizza una posizione “pacifista” – anche nel capoluogo – come foglia di fico di questi rapporti, reali e concreti. Lottiamo per il boicottaggio politico ed economico di Israele, e questo passa anche per lo stralcio dei rapporti economici di istituzioni, imprese pubbliche e multiutilities con Israele.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE CONTRO L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA, A PARTIRE DAL RITIRO DELLE PRE-INTESE CON CUI LA REGIONE HA RICHIESTO ULTERIORI FORME DI AUTONOMIA LEGISLATIVA
L’Autonomia Differenziata (AD) proposta dal Ministro Calderoli e sostenuta dal Governo Meloni è parte integrante di un programma ordoliberista. In questo quadro, la distruzione dei vincoli di solidarietà e dei diritti sociali va di pari passo con l’autoritarismo e la riduzione delle libertà collettive. Persone e territori sono spinti in una competizione sfrenata, promuovendo la supremazia del mercato e del profitto privato sull’interesse pubblico e sui diritti sociali. Il potere viene gestito in modo sempre più liberticida, a garanzia di un ordine fondato sul profitto.
L’AD rappresenta solo il culmine di un processo di distruzione dei diritti e dell’uguaglianza sociale, che ha coinvolto tutti i governi degli ultimi decenni, senza distinzione politica. Essa è l’ultimo disastroso effetto della controriforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra all’inizio degli anni 2000. Non sorprende che il percorso di implementazione dell’AD sia stato avviato proprio dal governo Gentiloni, con il sostegno sia di Regioni governate dalla Lega che dal PD.
Emilia-Romagna per la Pace, l’Ambiente e il Lavoro è contraria alla richiesta di Regionalismo Differenziato presentata dalla Regione al Governo perché mina i principi della solidarietà nazionale e dell’universalità dei diritti.
Siamo da sempre interni alle lotte e ai percorsi che hanno portato alla promozione del referendum per l’abrogazione totale dell’autonomia differenziata e contestiamo la scelta di 5 Regioni, fra cui anche l’Emilia-Romagna, di aver approvato un quesito di abrogazione parziale del DDL Calderoli che, di fatto, legittima l’impianto del regionalismo differenziato.
Abbiamo contribuito alla raccolta firme a sostegno della Legge regionale di Iniziativa Popolare per il ritiro delle pre-intese e continuiamo a chiederne la rimozione insieme alla garanzia che la Regione non percorra più questa strada
Sottrarre potere alle burocrazie regionali e restituirlo alle comunità locali e ai comuni è la base per ridefinire una gestione democratica del welfare e dello Stato sociale.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE PER IL DIRITTO ALLA PRATICA SPORTIVA
Il diritto alla pratica sportiva per una migliore qualità della vita deve essere accessibile e vivibile quotidianamente, e le città e i comuni vanno progettati prevedendo ambienti naturali che consentano l’attività motoria.
- Vogliamo aree dedicate nei parchi pubblici e vere piste ciclabili percorribili in sicurezza
- Vogliamo sviluppare la medicina dello sport nelle strutture pubbliche e una regione che promuova attività di educazione allo sport per promuovere la salute ed il benessere fisico e prevenire malattie dovute a scarsa attività motoria.
- Vogliamo che la regione sostenga con appositi fondi l’associazionismo sportivo e la pratica sportiva e motoria dei ragazzi e delle ragazze come contributo a parziale copertura delle rette/costi per la frequenza di corsi/attività organizzate da associazioni sportive.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE CONTRO LA CRIMINALITÁ ORGANIZZATA
In Emilia-Romagna la criminalità organizzata ha oggi un radicamento senza precedenti, anche grazie alla collusione di settori della società che hanno aperto le porte dell’economia e delle professioni alle mafie. È qui che si è svolto Aemilia, il secondo maxiprocesso del nostro paese contro un’organizzazione criminale di stampo mafioso, dopo quello di Palermo del 1986. Tutto questo non possiamo accettarlo e ciò che è stato fatto è evidentemente insufficiente.
La lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata passa anche per un cambiamento profondo del nostro sistema sociale ed economico, che tolga l’acqua in cui galleggiano le mafie. Per questo Emilia-Romagna per la pace, l’ambiente e il lavoro si impegna a garantire politiche di lotta alla povertà e al lavoro povero e a modificare le modalità di affidamento degli appalti d’opera e quelli di servizio per fermare il massimo ribasso e impedire il sub appalto.
Vogliamo istituire osservatori antimafia in ogni provincia e una commissione consiliare permanente sulla criminalità organizzata quale luogo per analizzare, studiare e avanzare proposte e soluzioni al contrasto alla criminalità organizzata con la partecipazione effettiva delle associazioni anti-mafia del territorio.
Vogliamo proseguire e intensificare il contrasto al gioco d’azzardo patologico e arrestare la diffusione di locali che ospitano apparecchi elettronici con vincite in denaro.
EMILIA-ROMAGNA REGIONE AMICA DEGLI ANIMALI
La compagnia di un animale rende la vita migliore e contribuisce ad aumentare il benessere psico‐fisico delle persone.
La tutela degli animali è dunque importante, e in questo ambito proponiamo:
- Interventi nelle scuole al fine di favorire la diffusione di una corretta cultura sugli animali da affezione e da reddito, al fine di responsabilizzare coloro che decidono di adottare un animale e prevenire il fenomeno dell’abbandono e il maltrattamento, che ora è finalmente punibile per legge.
- Interventi di educazione ambientale e animalista nelle scuole per formare le nuove generazioni al rispetto dei diritti di tutti gli esseri viventi e perché le famiglie abbiano l’opportunità di scegliere il consumo di alimenti vegetali in alternativa a quello degli alimenti di origine animale.
- Un’adeguata informazione alimentare perché cresca la consapevolezza dell’importanza di una dieta sana ed equilibrata per creare buoni stili di vita anche allo scopo di contrastare l’abuso consumistico dei cibi pronti per gli animali domestici.
- La diffusione di progetti pet-therapy – che ora è riconosciuta anche dalla legge come metodo di “co-terapia” – nei servizi educativi e nelle strutture per anziani.
- Vogliamo che la disciplina regionale per le attività circensi vieti circhi e mostre viaggianti che utilizzino animali.